Bambini a lezione di empatia!
I danesi la chiamano Klassens tid, che nella nostra lingua sta per “tempo di classe”, ovvero “un’ora settimanale di empatia” prevista obbligatoriamente dalla scuola per tutti i bambini di età compresa tra i 6 e i 16 anni: sessanta minuti in cui far “pratica di empatia”, esattamente come ci si esercita in matematica o nella lettura; una lezione speciale, pensata per valorizzare una competenza che i danesi ritengono meriti di essere insegnata, e quindi appresa.
In un clima sereno e non giudicante, mediante il racconto di sé e l’ascolto delle storie altrui, i bambini vengono messi a proprio agio, liberi di esprimersi e di pensare “ad alta voce”, di confrontarsi e consigliarsi tra loro rispetto ad una problematica riportata, mettendosi di volta in volta nei panni dell’interlocutore e scoprendo, giorno dopo giorno, il valore del rispetto reciproco, della solidarietà e dello spirito di gruppo. A rendere il tutto ancor più confortevole è un rituale goloso che consiste nell’accompagnare al momento di confronto, una g
ustosissima torta al cioccolato, la Klassen Time kage, preparata dai bambini stessi.
In quest’ambiente accogliente, gli insegnanti, debitamente formati, si predispongono all’ascolto delle problematiche dei propri studenti, aiutandoli, assieme al prezioso contributo del gruppo classe, a trovarvi soluzione, senza lasciarsi sovrastare dalle emozioni negative; un’ora di “sintonizzazione emotiva”, proficua non solo per i bambini, ma anche per i docenti che, prestando attenzione più da vicino ai bisogni dei loro bambini, hanno l’opportunità di conoscerli meglio e conseguentemente, di costruire con loro una relazione autentica. La Klassens tid entra ufficialmente nel curriculum nazionale danese nel 1993, pur essendo praticata nella stessa Danimarca già dal lontano 1870.
Ma facciamo un passo indietro! In cosa consiste esattamente l’empatia?
La parola deriva dal greco “en-pathos”, “sentire dentro” e sta ad indicare la capacità di immedesimarsi con gli stati d’animo ed i pensieri delle altre persone, sulla base della comprensione dei loro segnali emozionali, dell’assunzione della loro prospettiva soggettiva e della condivisione dei loro sentimenti (Bonino, 1994). Essenzialmente vuol dire “sapersi mettere nei panni dell’altro”, entrando in contatto con le sue emozioni, sia positive che negative.
Secondo Martin Hoffman, l’empatia è una capacità che muove ed integra componenti affettive e cognitive che compaiono in parallelo con la maturazione psicologica del bambino e con l’acquisizione di una sempre maggiore capacità di distinguere se stesso dagli altri. Secondo l’autore, nel 1° anno di vita, i bambini possiedono una capacità empatica globale, ovvero reagiscono alla sofferenza altrui solo in maniera riflessa, mediante un “contagio emotivo”, poiché sono ancora in una condizione di sostanziale confusione fra sé e l’altro. Dopo il primo anno di vita essi sviluppano quella che Hoffman definisce un’empatia egocentrica, per cui di fronte alla sofferenza di un’altra persona, intervengono essenzialmente per attenuare il disagio che questa provoca a se stessi, offrendo l’aiuto che loro stessi vorrebbero ricevere. Verso i 3 anni, con lo sviluppo del linguaggio e successivamente con la comparsa di una forma di pensiero più decentrato (verso i 6-7 anni), i bambini sviluppano una competenza empatica più matura, a cui consegue sia la capacità di differenziare gli stati mentali propri ed altrui, sia quella di fornire un aiuto appropriato alla specificità della situazione. In adolescenza, infine, si sviluppa quell’empatia che, oltre alla situazione contingente, tiene conto della persona nella sua globalità e delle sue condizioni di vita generali.
L’empatia ha molteplici risvolti positivi: favorisce la comunicazione, la consolazione, la risoluzione dei problemi, l’accettazione di sé e degli altri; non solo, costituisce un ottimo strumento di prevenzione rispetto ad alcuni fenomeni (tra cui il bullismo, ad esempio) al giorno d’oggi largamente diffusi. Ma attenzione! Un’eccessiva sintonizzazione emotiva con l’altro, può farci perdere di vista noi stessi, privandoci dell’energia di cui necessitiamo per poter essere di aiuto; per tale ragione è fondamentale che nel fare educazione all’empatia, si trasmetta ai bambini anche l’importanza di non lasciarsi invadere dallo stato d’animo altrui. L’empatia rappresenta quindi un’abilità cruciale a livello relazionale, fondamentale per un sano sviluppo dei giovani, tuttavia, essa sembra essere in declino: un recente studio condotto dall’Università del Michigan su 14.000 studenti, ha difatti evidenziato un drastico calo nei livelli di empatia tra i giovani americani, il 40% in meno rispetto agli alunni negli anni ‘80 e ‘90. L’aumento di narcisismo e la perdita di empatia, sono state riconosciute come le principali ragioni per cui quasi un terzo dei ragazzi statunitensi soffre di depressione o presenta altri problemi di salute mentale. Non è un caso che dal “World Happiness Report 2016”, i danesi e più in generale gli abitanti del nord Europa, risultano essere tra le persone più felici al mondo https://psicologheinrete.it/genitori-e-figli/educare-propri-figli-alla-felicita: probabilmente gran parte del merito di questo risultato va attribuito al fatto che “crescere prestando attenzione all’altro”, rende i bambini “emotivamente più consapevoli”, contribuendo a farne degli adulti felici.
E la scuola italiana? Come si sta rapportando a tutto questo?
In Italia, una procedura psicoeducativa che si sta muovendo nella stessa direzione dell’iniziativa danese e che ha dato origine a diversi progetti di intervento e formazione del personale docente, è l’Educazione Razionale Emotiva (M. Di Pietro, 1990), una metodologia didattica pensata per studenti della scuola primaria e secondaria, volta a condurre il bambino ad una piena consapevolezza delle proprie emozioni e dei meccanismi mentali sottostanti e ad apprendere alcune procedure per fronteggiare in modo costruttivo le difficoltà che può incontrare nell’ambiente scolastico e familiare. L’obiettivo ultimo è che questa procedura possa diventare parte integrante delle discipline curricolari; in che modo? Durante l’ora di lettere, ad esempio, l’insegnante potrebbe aiutare i ragazzi ad espandere il loro vocabolario emotivo, mentre il docente di scienze, potrebbe spiegare loro i segnali fisici che il corpo ci invia quando proviamo determinate emozioni. Le principali finalità perseguite da tale metodologia sono: facilitare il superamento di stati d’animo spiacevoli; favorire l’accettazione di se stessi e degli altri; aumentare la tolleranza alla frustrazione; stimolare l’acquisizione di abilità di autoregolazione del comportamento; incentivare la cooperazione in alternativa alla competizione.
Attualmente sono in via di sperimentazione altre iniziative di questo tipo, ma si tratta di realtà isolate, la cui concretizzazione è spesso legata al buon senso dei dirigenti scolastici.
Detto questo, va riconosciuto che il retroterra culturale della Danimarca è molto diverso dal nostro e molto più fertile per certe cose, eppure, vi è la certezza che la Klassens tid gioverebbe tantissimo anche ai nostri bambini-ragazzi, poiché l’espansività spesso associata al nostro “essere italiani”, non implica automaticamente il saper entrare in relazione con l’altro in modo efficace. La capacità di spostare l’attenzione da Sé per prestarla ad Altri, non è difatti né così immediata, né tantomeno scontata. Ne consegue che, nonostante sia vero che l’empatia è un’abilità presente in chiunque, è altrettanto vero che essa può essere ampliata e potenziata; per tale ragione, l’istituzione nella scuola italiana di uno “spazio dedicato all’empatia”, potrebbe realmente costituire per i giovani un’opportunità per rafforzare la propria capacità di ascolto e di auto-ascolto e per convincersi del fatto che avere delle insicurezze non vuol dire essere sbagliati, che parlarne non è mai tempo perso, che la condivisione del proprio “sentire” con qualcuno a noi vicino è il primo passo da compiere per stare meglio, per affrontare i propri problemi e per superarli.
Del resto, la scuola è una “palestra di vita” in cui i bambini non apprendono solo nozioni, ma imparano anche a rapportarsi agli altri, a comunicare e gestire le proprie emozioni e a sviluppare importanti competenze personali e sociali, utili per il loro futuro.
Articolo a cura della dott.ssa Sara Belli