La “madre specchio” nella relazione con il bambino
“Ora, ad un certo punto, viene il momento in cui il bambino si guarda intorno. Forse il bambino al seno non guarda il seno. E’ più probabile che una caratteristica sia quella di guardare la faccia.[…] Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me, di solito ciò che il lattante vede è sé stesso. In altre parole la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge“ (D. H. Winnicott, 1971).
Con queste parole Winnicott, pediatra e psicoanalista inglese, definisce il rispecchiamento del Sé del bambino in quello della madre, meccanismo psicologico fondamentale nel processo di costruzione dell’identità dell’individuo, indagato nei bambini sin dalla nascita.
Come ha inizio il rispecchiamento e in che modo, mediante esso, la madre può promuovere il benessere psicologico del bambino?
Nei primi momenti della sua vita, il bambino è in uno stato simbiotico con la madre, ovvero in una condizione di dipendenza assoluta da essa, ragione per cui è auspicabile che in questa fase, lei riesca a comprendere e talvolta, prevenire i suoi bisogni.
Winnicott sostiene che dalla qualità di queste prime cure materne dipenda il sano sviluppo psichico dell’individuo e che saper accogliere il bambino, sostenendo la formazione della sua personalità, significhi offrirgli, al pari di uno specchio, la possibilità di ricevere indietro, mediante gli occhi amorevoli di sua madre, l’immagine di se stesso.
Avete mai osservato un bambino di 6 mesi davanti ad uno
specchio?
Nell’elaborare la sua tesi sul rispecchiamento, Winnicott subisce l’influenza del lavoro di Lacan sullo “stadio dello specchio”(1949), fase in cui il bambino tra i 6 e i 18 mesi, in braccio alla madre, davanti allo specchio, si riconosce per la prima volta nell’immagine che gli viene specularmente riflessa. Sulla scia di tali studi, Winnicott ipotizzò, invece, che il precursore dello specchio, nello sviluppo emozionale dell’individuo, fosse il volto materno.
In cosa consiste il rispecchiamento?
Esso può essere definito come la capacità della madre di accogliere l’emotività che il bambino le trasmette con la sua espressione facciale, di sintonizzarsi con essa, di integrarla nella rappresentazione mentale che lei ha del bambino, dandole un senso, per poi restituirla, così elaborata, attraverso l’espressione del proprio volto. È mediante l’espressione facciale dell’Altro, che noi captiamo con immediatezza come esso ci vede e di conseguenza, come noi possiamo essere: il bambino che guarda il volto materno, si vede riflesso in esso e riceve indietro ciò che la madre gli restituisce di se stesso: questo è il nucleo del sé, sul quale cresce e si sviluppa il proprio modo di essere.
La consistenza dell’immagine che ognuno ha di se stesso, si costruisce quindi nella relazione con Altri significativi, sulla base di ciò che questi ci rimandano di noi.
All’inizio della sua storia, il bambino s’incontra col mondo attraverso la figura della madre ed è mediante questo primo rapporto molto esclusivo, che la realtà esterna si arricchisce gradualmente fino a comprendere altre figure di riferimento. Lo stesso Winnicott afferma che, all’inizio della vita, ognuno esiste solo in quanto parte di una relazione e che la possibilità per un individuo di vivere e svilupparsi, dipenda totalmente dal soddisfacimento del suo bisogno primario di attaccamento e appartenenza ad un Altro, ovvero, una madre-caregiver che sia capace di sostenerlo fisicamente e psichicamente (holding).
La madre, come principale figura di accudimento, rappresenta l’esperienza fondamentale del bambino, la causa prima e determinante di ciò che è destinato ad essere; è indubbiamente colei che, più di altri, ha il compito di accompagnarlo verso quella visione del mondo e quella vita che lo attende al di là delle sue braccia amorevoli.
E’ in funzione della qualità affettiva di tale relazione primaria e della disponibilità della figura di attaccamento a contenere, proteggere e rassicurare il bambino, che quest’ultimo avrà o meno la possibilità di sviluppare in maniera sana il suo vero Sé.
Cosa si intende per vero-Sé?
Esso può essere definito come il nucleo reale ed autentico dell’individuo, ovvero, ciò che consente a quest’ultimo di essere se stesso e di esprimersi in tutta la sua creatività. Il vero Sé del bambino si manifesta attraverso quelli che Winnicott chiama gesti spontanei, ovvero quei sorrisi, quelle vocalizzazioni o quei movimenti del corpo che non nascono per imitazione o in risposta al caregiver, ma che provenendo direttamente dal suo nucleo emozionale, sono espressione del suo modo di essere.
In tale contesto, il compito del genitore è di guardare, gioire, incoraggiare ogni gesto creativo del bambino, guardandosi bene dal bloccarlo o dall’interferire con il suo controllo o giudizio, poiché tutto dipende dalla qualità e quantità del suo sostegno affettivo.
Un caregiver incapace di assolvere questa funzione e di riflettere lo stato emotivo del bambino, invece, indurrà quest’ultimo ad “fare suo” lo stato emotivo specifico del genitore: con il tempo, questa ripetuta interiorizzazione dell’umore o delle difese del genitore, può portare il bambino a strutturare un falso-Sé, ovvero un senso di non esistenza, di inutilità, conseguente ad un’inadeguata funzione materna e finalizzato a colmare il vuoto lasciato dalla difettosa risposta dell’Altro alle proprie aspettative. Secondo Winnicott, la funzione di specchio assunta dalla madre, non riguarda solo i primi mesi di vita; l’autore sostiene infatti che seppur crescendo, il bambino sarà meno dipendente dal volto materno per vedersi restituito il proprio sé, tuttavia, all’interno di una famiglia coesa, egli continuerà comunque a trarre beneficio dalla possibilità di vedere se stesso nell’atteggiamento dei suoi famigliari.
Ma uno specchio, affinché possa restituire a chi guarda l’immagine ricevuta, deve essere in grado di rifletterla! Specchi concavi o convessi, appannati o impolverati non sono in grado di riflettere l’immagine che ricevono o comunque la restituiscono in una forma distorta.
Quali sono le principali conseguenze che il bambino subisce a seguito di un mancato o inadeguato rispecchiamento materno?
È chiaro che non ci si riferisce a circostanze eccezionali, ma ad una lunga esperienza di occasioni in cui il bambino si è sentito “non visto” o comunque, non ha visto restituirsi quanto dato.
- In primis, si verifica un blocco della sua capacità creativa: “essere visto, afferma Winnicott, è alla base dello sguardo creativo”. Il bambino che nel guardare la madre, non trova “qualcosa di sé”, è obbligato a percepire l’Altro troppo precocemente e a fare i conti con una separazione violenta a cui non è ancora pronto: ne consegue il tentativo di cercare attorno a sé, altri modi per riavere dall’ambiente quel qualcosa che gli appartiene e che la madre non è stata in grado di restituirle. L’ambiente post-natale ha l’importante compito di continuare a riprodurre condizioni di vita analoghe a quelle intrauterine, di confine e benessere, entro cui il neonato possa continuare a funzionare semplicemente e spontaneamente. Una madre sufficientemente buona, che si preoccupa non solo di fornire cibo, ma anche di soddisfare i bisogni di relazione, offre al bambino l’illusione che esista una realtà esterna corrispondente alla sua capacità di creare, sostenendo in tal modo il suo bisogno di onnipotenza. La capacità di usare la fantasia ha un ruolo importantissimo nello sviluppo psichico del bambino, poiché precede l’acquisizione del senso di realtà e consente al piccolo di entrare in rapporto con essa in maniera graduale e protetta. È attraverso le sue costruzioni fantastiche ed illusorie e soprattutto attraverso la capacità dei genitori di tollerarle, che il bambino acquisterà fiducia nel fatto di poter dire la sua rispetto alla realtà ed avrà modo quindi di costruirsi un’immagine personale rispetto al mondo. Il mondo soggettivo della fantasia, infatti, ha valore solo se viene permesso e se intrattiene un buon rapporto con la realtà esterna, che per il bambino è rappresentata, appunto, dai genitori.
- In secondo luogo, viene compromessa la sua capacità di mentalizzare, ovvero di interpretare e rappresentarsi il proprio comportamento e quello altrui in termini di contenuti mentali (elaborazione di un pensiero). Cerchiamo di capire meglio, immaginando di assistere ad uno dei tanti momenti in cui una mamma allatta il suo bambino: una madre capace di godere appieno del valore affettivo e comunicativo di tale esperienza, che sa interagire affettuosamente con il suo bambino mentre si prende cura di lui, è una madre che sta creando le basi per lo sviluppo di una “mente emozionale” (ovvero, capace di “sentire” le esperienze di vita intorno a sé e di godere del piacere di un ambiente a lei esterno) che, a sua volta, garantirà lo sviluppo di una “mente cognitiva” (capace di apprendimenti cognitivi). Nel ripetersi dell’esperienza al seno (in genere, per almeno i primi 6 mesi di vita) il lattante impara a riconoscersi, sviluppando fiducia in quel bambino che ogni volta appare nello sguardo materno. Al contrario, tra le braccia di una madre assorta nel suo stato d’animo, incapace di accogliere e contenere il bambino attraverso i suoi occhi, quest’ultimo sperimenterà un forte senso di confusione che gli impedirà non solo di riconoscersi, ma soprattutto di sviluppare, a lungo termine, una mentalizzazione efficace.
- Infine, il bambino si abitua all’idea che quando guarda, ciò che vede è il volto della madre (e non se stesso): l’incapacità materna di fungere da specchio, priva il bambino della possibilità di iniziare a costruire uno scambio significativo con il mondo, un processo attraverso cui poter arricchire il proprio Sé e scoprire nuovi significati rispetto a ciò che egli vede. In una madre costantemente preoccupata per qualcos’altro, il bambino vedrà solo lo stato d’animo di lei e questo gli impedirà di “riprendersi” ciò di cui necessita per strutturare la propria identità. A causa del fallimento di questa essenziale funzione materna, alcuni bambini tendono continuamente a studiare il volto della madre nel tentativo di predirne l’umore. In casi estremi, ai limiti della patologia, tale dinamica può minacciare l’equilibrio psichico del bambino, che crescerà pieno di perplessità su ciò che lo specchio è in grado di offrire, vivendolo come “cosa da guardare” e non come “cosa in cui poter guardare”; tale difficoltà relazionale con lo specchio e con il proprio volto, può estendersi ai volti in generale, causando rapporti interpersonali problematici.
La costruzione di un senso di sé e dell’altro, avviene quindi mediante una relazione di attaccamento in cui il bambino è riconosciuto, riflesso e trattato dall’Altro come un essere psicologico.