Aspetti psicologici della celiachia nel bambino
Il rapporto dell’individuo con il cibo, va ben oltre il semplice atto della nutrizione: il cibo difatti rappresenta un bisogno primario dell’essere umano ed è permeato di valori simbolici largamente condivisi. Per cogliere l’aspetto culturale dell’alimentazione, è sufficiente pensare ai momenti di convivialità, condivisione e ritualità collettiva (es. le feste, le cene di lavoro, la pizza tra amici, i pranzi in famiglia, ecc.) in cui, il pasto diviene il fulcro di complesse interazioni affettive e comunicative; per coglierne gli aspetti psicologici, invece, basta pensare alla relazione che sin dalla nascita si stabilisce tra il bambino e la figura materna, intesa come fonte di nutrimento non solo fisico, ma anche emotivo e mentale. Attraverso il cibo la madre si prende cura del piccolo, soddisfacendo un suo bisogno primario e, allo stesso tempo, interagisce/gioca con lui, trasformando l’atto nutrizionale in un momento di scambio e di costruzione della relazione.
Se ne evince, pertanto, quanto gli aspetti emotivi, fisiologici e psicologici associati al cibo, siano strettamente interconnessi e quanto ogni perturbazione dei processi nutritivi o della crescita fisica dei bambini (così come ogni malattia o “ferita” del piccolo), possa essere vissuta dai genitori come una minaccia all’equilibrio familiare o in casi estremi, come un atto d’accusa alle loro capacità genitoriali.
La celiachia, ma in generale tutte le malattie croniche (ad es. il diabete o le allergie) insorte nell’infanzia, difatti incidono sull’intero sistema familiare alterandone spesso sia le interazioni che si stanno sviluppando fra genitori e figli, sia lo sviluppo del Sé nel bambino.
Ma facciamo un passo indietro!
Cos’è la celiachia?
La celiachia è un’enteropatia immuno-mediata scatenata dalla ingestione del glutine in individui geneticamente predisposti. È un’intolleranza permanente al glutine, proteina presente in alcuni cereali (frumento, avena, farro, kamut, orzo, segale, spelta e triticale).
Essa si differenzia dalla “gluten sensivity” (intolleranza al glutine) perché mentre nelle persone celiache, il glutine scatena una reazione autoimmune, che attacca l’intestino e danneggia gravemente la mucosa intestinale, negli intolleranti al glutine, sono presenti dolori addominali, colon irritabile, affaticamento, mal di testa, ma non gravi lesioni intestinali. La celiachia al momento rappresenta uno tra i più comuni disordini cronici, a livello mondiale: negli ultimi anni, difatti, si è registrato un boom di nuovi casi, soprattutto tra le donne e i bambini in età pediatrica (secondo le stime della “Relazione annuale 2013” sulla celiachia).
La diagnosi di una malattia cronica di questo tipo, indubbiamente comporta per l’individuo che la riceve e per i suoi cari, un grande cambiamento nello stile alimentare e di vita, generando forti ripercussioni a livello emotivo, oltre che relazionale e sociale.
Tutte le abitudini alimentari già acquisite dal bambino, di colpo vengono rivoluzionate e la dieta “gluten free”, l’unica terapia possibile, necessita di essere immediatamente intrapresa, per poi essere mantenuta a tempo indeterminato. È chiaro che questo implica una completa riorganizzazione delle giornate e della vita sociale del bambino e dei suoi familiari, comportando delle difficoltà che vanno al di là della semplice prescrizione di “non mangiare glutine”. La malattia celiaca, oltre ad alterare lo stato biologico dell’individuo, ne compromette il senso di identità personale (chi sono io?) e sociale (come mi vedono gli altri), che quindi necessita di essere ridefinito.
La diagnosi di celiachia si configura quindi come un vero e proprio momento di “crisi”, capace di generare nella mente del neo-diagnosticato, una sorta di separazione tra il pre- ed il post-diagnosi, tra “ciò che era” e “ciò che sarà”: un po’ come un “lutto”, che come tale ha bisogno di essere elaborato.
Per tali ragioni, da alcuni anni si è assistito ad un consistente aumento dell’attenzione per la dimensione psicologica della celiachia, nell’ottica di un approccio bio-psico-sociale alla malattia, che consideri il corpo e la mente come parti interconnesse di un unico insieme.
Lo stesso Ministero della Salute, in riferimento alle nuove Linee Guida per la diagnosi ed il follow- up in celiachia (2015), afferma l’importanza del prendere in carico gli aspetti cognitivi e comportamentali legati all’aderenza alla dieta e quindi, al cambiamento radicale nello stile di vita che essa comporta.
Come si manifesta la celiachia nel bambino?
Nella sua forma tipica, esordisce generalmente a distanza di alcuni mesi dall’introduzione del glutine nella regime alimentare ed è caratterizzata da comparsa di diarrea acuta o cronica con feci liquide, semiliquide, chiare ed abbondanti. L’arresto della crescita ed il calo ponderale è conseguenza del malassorbimento. L’addome si presenta globoso, per ipotonia ed ipotrofia dei muscoli della parete addominale e contrasta con la magrezza degli arti inferiori che appaiono esili e sottili. Altri sintomi associati possono essere i dolori addominali, il vomito e l’anemia.
A livello emotivo-comportamentale, sono generalmente presenti alterazioni dell’umore con apatia o irritabilità, svogliatezza a scuola ed aggressività con i compagni, dipendenza dalla madre e, in casi estremi, una chiusura simil-autistica. Tali caratteristiche possono permanere anche dopo l’inizio della dieta, come forma di protesta psicologica al repentino cambiamento che il bambino è costretto a dover gestire. La malattia celiaca non determina quasi mai di per sé gravi problemi psichici, ma sono possibili dei momenti di stanchezza nelle fasi più delicate dello sviluppo.
Il disagio maggiore è comunque rappresentato dalla dieta:
- Nei bambini molto piccoli, il divieto di mangiare alcuni cibi può non essere compreso e quindi vissuto come una costrizione; in questi casi è importante che i genitori sappiano passare al figlio informazioni chiare ed oneste su ciò che possono e non possono mangiare e sull’importanza dell’aderenza alla dieta, facendo chiarezza nei sui pensieri e gettando le basi per un “nuovo” rapporto di fiducia in cui il piccolo possa sentirsi accolto e capito.
- In età scolare, invece, il bambino spesso affronta la malattia come un evento esterno a sé, sentendosi minacciato nel suo senso di sicurezza e sviluppando il timore di essere considerato diverso. Informare e sensibilizzare gli insegnanti, i parenti e i genitori degli amici sulla celiachia, può essere utile per rafforzare il senso di competenza e di fiducia del bambino, facendolo sentire tranquillo anche in contesti diversi da quello familiare.
- Più complessa è la situazione in adolescenza, dove la malattia cronica può interferire con il bisogno di autonomia-indipendenza tipico di questa fase e con l’esigenza di accettazione da parte dei pari, generando un senso di impotenza e di inferiorità rispetto ai compagni che può portare il ragazzo ad isolarsi, a rifiutare la diagnosi o a trasgredire la dieta, come segno di ribellione (spesso nei confronti dei genitori).
Tanto più il bambino è piccolo, tanto più le reazioni della famiglia rivestono un’importanza particolare per l’accettazione-adattamento del bambino alla malattia, oltre che per la compliance (adesione) alla dieta: ciò sta a significare che “il bambino vivrà la celiachia con il senso che le verrà attribuito dall’ambiente, specie dall’ambiente che conta”. Per tale ragione, il modo migliore per aiutare un bambino in difficoltà è quello di aiutare i suoi genitori a rinforzare o recuperare la fiducia in se stessi, ad accogliere il “sentire” del bambino senza esserne spaventati, a trovare il giusto equilibrio tra istinto di protezione e incoraggiamento all’autonomia del piccolo (responsabilizzazione del bambino nella gestione della malattia).
Molti genitori hanno difficoltà a fissare dei limiti o delle regole al proprio bambino, spesso per il timore di affrontarne le manifestazioni di rabbia: può accadere a coloro che non riescono ad accettare il “nuovo ruolo” del figlio e che hanno paura di infliggere al bambino una sofferenza anche con un semplice rimprovero; oppure a quei genitori che si sentono confusi rispetto a ciò che è funzionale o meno alla crescita e che non sono in grado di comprendere le emozioni, proprie e dei loro figli, vivendo con terrore l’idea di provare sentimenti ostili o di esserne oggetto. È in tali circostanze che i genitori, non riuscendo a scorgere altre soluzioni, finiscono per cedere alle richieste “malsane” del bambino, lasciando che quest’ultimo faccia “uno o più strappi” alla dieta.
Tutto questo ci aiuta a comprendere che quando la malattia cronica colpisce un bambino, attraverso di lui colpisce tutto il gruppo familiare, provocando nei genitori uno sconvolgimento emotivo tale da renderli spesso incapaci di accogliere e contenere i sentimenti di paura, rabbia e disperazione del piccolo.
Attraverso il supporto di uno psicologo esperto in ambito alimentare, essi possono trovare un contenimento alle loro ansie, alle loro preoccupazioni per il futuro del bambino e non di rado, ai loro sensi di colpa, imparando che solo se si è capaci di parlare della malattia e delle “parti malate” del bambino, le “parti sane” avranno l’opportunità di emergere e di esprimersi.
Articolo a cura della dott.ssa Sara Belli