MOBBING: codice civile e codice penale
Con il termine MOBBING si fa rifermento all’insieme dei comportamenti persecutori che tendono a emarginare un soggetto dal gruppo sociale di appartenenza, tramite violenza psichica protratta nel tempo e in grado di causare seri danni alla vittima. Sono dunque riconducibili a condotte mobbizzanti le forme di angheria perpetrata da una o più persone nei confronti dell’individuo più debole, come ad esempio ostracismo, umiliazioni pubbliche e diffusione di notizie non veritiere.
I soggetti vittima di mobbing sono tutelati dall’ordinamento italiano sia sotto un profilo civile che penale. Nel CODICE CIVILE è possibile rinvenire due fondamentali norme in grado di aiutare le vittime di comportamenti mobbizzanti a trovare tutela rispetto alle lesioni subite;
L’articolo 2043 che prevede l’obbligo di risarcimento in capo a chiunque cagioni ad altri un danno ingiusto con qualunque fatto doloso o colposo
L’articolo 2087 che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale di lavoratori.
Con riferimento alle leggi speciali, una tutela contro comportamenti mobbizzanti può essere ravvisata innanzitutto nello Statuto dei lavoratori, nella parte in cui pone una specifica procedura per le contestazioni disciplinari a carico dei lavoratori e laddove punisce i comportamenti discriminatori del datore di lavoro. Un’ulteriore tutela, di carattere più generale, è ravvisabile, infine, nel Testo unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Maggiormente problematica e articolata è la tutela prevista dalle norme del CODICE PENALE, in assenza di uno specifico reato di mobbing e nonostante l’interesse del legislatore, manifestato più volte nell’ultimo periodo, mediante proposte e disegni di legge. I comportamenti mobbizzanti, infatti, qualora sussistano determinate condizioni, possono essere riconducibili al reato di lesioni personali di cui all’articolo 590 del codice penale o possono essere punibili a titolo di maltrattamenti in famiglia, art 572c.p.
E’ quindi necessario capire quali sono i tipi di mobbing e come vengono puniti in ambito penale.
Per fornire una tutela sicura e adeguata alle vittime di mobbing si devono anche considerare quelle condotte come il “BOSSING” o “mobbing verticale”, ovvero il mobbing non tra colleghi ma del capo sul dipendente e lo “STRAINING”, ossia una forma di mobbing più lieve in cui l’azione è una e singola anche se gli effetti sono perpetrati nel tempo.
Chiarito, seppur sinteticamente, il quadro generale, possiamo affermare che grazie all’ attenzione dei Tribunali la definizione di mobbing si ricava dalle recenti sentenze sull’argomento e sanziona “una durevole serie di reiterati atti vessatori e persecutori nei confronti del lavoratore all’interno dell’ambiente di lavoro in cui egli opera, capaci di provocare un danno ingiusto, incidente sulla persona del lavoratore e in particolare sulla sua sfera mentale, relazionale e psico-somatica, a prescindere dall’inadempimento di specifici obblighi previsti dalla normativa regolante il rapporto di lavoro”.
Consideriamo ora casi concreti affrontati nei Tribunali, con particolare riferimento alla figura femminile.
Questa, in breve, la vicenda: una lavoratrice in servizio da molti anni presso un’azienda operante nel settore dei prodotti chimici, con oltre venticinque dipendenti, subisce, al rientro dal periodo di maternità, una serie di comportamenti vessatori e discriminanti da parte del Presidente del C.d.A. e dell’Amministratore delegato della società, nello specifico consistenti nell’assegnazione a mansioni meno qualificanti rispetto a quelle cui era adibita nel periodo precedente il congedo, nell’esclusione da alcune occasioni conviviali comuni (come il mancato invito alla cena aziendale, esteso invece indistintamente a tutti gli altri dipendenti) ed infine nell’adozione di taluni provvedimenti disciplinari, culminati nel licenziamento per giusta causa, già ritenuti tutti illegittimi da parte del giudice del lavoro.
Nel caso di specie la Cassazione affronta nuovamente la questione relativa alla riconducibilità del mobbing al reato di «maltrattamenti contro familiari e conviventi»
I maltrattamenti sul posto di lavoro sono equiparati ai maltrattamenti in famiglia quando il contesto lavorativo è molto simile ad una comunità familiare: tale similitudine si ha in ambienti limitati ad un numero esiguo di persone, nei quali i rapporti interpersonali sono piuttosto informali, l’attività è caratterizzata da un’ampia discrezionalità e tra lavoratori e superiori è presente un rapporto di affidamento. Proprio in virtù di queste abitudini di vita lavorativa, molto simili a quelle delle comunità familiari, il mobbing è riconducibile al reato di maltrattamenti in famiglia. Il reato è configurabile anche nei rapporti tra professionisti ad elevata specializzazione, perché prescinde dalla tipologia di attività esercitata, mentre non è riconducibile laddove, pur ravvisandosi chiaramente gli elementi del mobbing lavorativo, la struttura aziendale risulti articolata e complessa, e dunque non si possa riscontrare una relazione diretta tra preposto e dipendente che determini una comunanza di vita assimilabile a quella del consorzio familiare.
Quest’interpretazione è stata confermata anche da numerose sentenze precedenti della stessa Cassazione, che esclude il reato di maltrattamenti in famiglia, laddove il contesto lavorativo sia interno ad un’azienda di grandi dimensioni, con un rilevante numero di dipendenti: in ipotesi simili, non è dunque ipotizzabile il suddetto rapporto “para-familiare”.
Appare dunque evidente che la tutela in ambito penale sia abbastanza complessa ma non impossibile e di certo non deve scoraggiare la lavoratrice a denunciare.
Articolo a cura della Dott.ssa Cristina De Angelis, avvocato.
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