Il fenomeno Hikikomori: dal Giappone al resto del mondo

Il fenomeno Hikikomori: dal Giappone al resto del mondo

Adolescenti che si rinchiudono nella propria stanza e non ne escono per mesi o addirittura anni, abbandonando gli studi, navigando e giocando online in un ritmo sonno-veglia completamente invertito, mantenendosi con lavoretti via web, vivendo di cibo spazzatura ordinato per telefono o lasciandosi morire di fame; il disgusto per un mondo esterno sempre più veloce e competitivo e soprattutto, la chiusura in se stessi, nell’attesa di un’improbabile guarigione spontanea (l’esito finale è spesso l’ospedalizzazione coatta o il suicidio): tale fenomeno, nasce e si sviluppa in Giappone, ma velocemente sta giungendo anche in America e in Europa (specie nei paesi del nord), Italia inclusa.

dueNelle società nipponiche, il termine utilizzato per definirlo è Hikikomori, dato dalla combinazione dei verbi Hiku (tirare indietro) e Komoru (ritirarsi), letteralmente “stare in disparte, isolarsi”, ad indicare appunto, una condizione sociale che oramai va diffondendosi in maniera critica e capillare. L’espressione fu coniata dallo psichiatra Saitō Tamaki (1998), quando a metà degli anni ’80, egli segnalò una similarità sintomatologica tra un numero sempre crescente di adolescenti che mostravano letargia, incomunicabilità e isolamento totale, oltre alla frequente compresenza di depressione, comportamenti ossessivo-compulsivi e manie di persecuzione. Un recente sondaggio (2017), condotto in Giappone su soggetti di età compresa tra i 15 e i 39 anni, ha identificato ben 541.000 ritirati sociali; in Italia invece, le stime rilevano che 1 individuo ogni 250, sia soggetto a comportamenti a rischio di reclusione sociale. Va sottolineato però che tale disturbo è spesso associato o confuso (erroneamente) con la dipendenza da internet.

È possibile parlare di hikikomori se il soggetto ha trascorso almeno sei mesi in una condizione di isolamento sociale, di ritiro dalle attività scolastiche e/o lavorative, senza alcuna relazione al di fuori della famiglia. Il periodo medio di isolamento sociale è di circa 39 mesi, ma può variare da pochi mesi a parecchi anni. Di solito sono giovani di sesso maschile (anche se la presenza femminile sembra essere in aumento) tra i 14 e i 30 anni, spesso figli unici, appartenenti a famiglie di ceto sociale medio-alto, che decidono di rinchiudersi volontariamente nella propria stanza, evitando qualunque contatto diretto con il mondo esterno, spesso famigliari inclusi.

moNonostante questi giovani trascorrano il loro tempo su internet, con fumetti o video giochi, tale condizione va distinta dall’abuso tecnologico (internet addiction), anche se, un elemento comune c’è: una vita virtuale che sostituisce in pieno il reale, ma è bene sottolineare che l’uso di internet rappresenta una conseguenza e non la causa dell’isolamento. Il giornalista americano Michael Zielenziger, dal suo osservatorio di Tokyo, è stato tra i primi a cogliere questo fenomeno, facendolo conoscere ai lettori occidentali, attraverso la storia emblematica dell’Hikikomori Jun, raccontata nel libro “Non voglio più vivere alla luce del sole”.

La domanda a cui numerosi studi in merito hanno cercato di rispondere è: “cosa può spingere un giovane a scegliere di recludersi nella sua stanza, connesso al pc ed immerso in un’esistenza virtuale? E perché tanta paura di interagire con l’altro?”

mo 2Nella società orientali, questo fenomeno potrebbe simboleggiare la ribellione contro un paese conformista ed estremamente omogeneo, dove non vi è spazio per la differenza e diversità, dove non esistono altri modi per soddisfare le aspettative pre-imposte dalla società e, soprattutto, non soddisfarle significa fallire totalmente; pertanto una delle principali ragioni che induce uno hikikomori ad isolarsi, è dire no a quel conformismo. Un’altra causa è da ricercare nei rapporti sociali tra gli stessi adolescenti, che nel periodo scolastico spesso si dimostrano un autentico incubo con molestie e forme più o meno gravi di bullismo, causando ansia, fobia sociale e scolare. Anche i tratti caratteriali hanno un loro peso: non di rado, difatti, gli hikikomori sono ragazzi molti intelligenti, ma estremamente sensibili, che fanno fatica a relazionarsi con gli altri. Tra i fattori familiari, invece, sembra avere un ruolo cruciale la mancanza di una figura paterna: il padre, impegnato tutto il giorno sul posto di lavoro, finisce per eliminare tutte le attività extra-lavorative e, in qualità di uomo di casa, va ad esercitare sul figlio una sorta di “violenza simbolica”, evidenziando i suoi successi e la dedizione al lavoro, mostrandosi calmo e forte, limitando le emozioni e le parole, dalle quali il resto della famiglia finisce per dipendere psicologicamente. Lo scopo e la speranza è che il figlio assimili tali valori. In risposta a tali dinamiche, allo stesso tempo, si sviluppa spesso un’interdipendenza e collusione fra madre e figlio, tale da impedire alla prole, uno sviluppo psicologico autonomo.

treNel contesto occidentale, gli hikikomori sono adolescenti che si trovano a fare i conti con idee grandiose rispetto al proprio Sé, con aspettative smisurate, con l’idea di essere dei bambini speciali e che quindi faticano ad accettare le loro caratteristiche reali. Quando il divario tra la percezione di sé e le sollecitazioni di genitori, insegnanti e coetanei, avvertite come pressioni psicologiche, diventa troppo grande, i ragazzi sperimentano sentimenti di impotenza, perdita di controllo e di fallimento, sviluppando di conseguenza, un atteggiamento di rifiuto verso tutte le situazioni relazionali avvertite come fonti di disagio. Il senso di inadeguatezza li porta molte volte a maturare una sorta di ansia sociale e quindi, quale strada migliore per nascondersi dallo sguardo altrui, percepito come criticante, se non quella di rinchiudersi in un piccolo spazio (la propria stanza), considerato ormai come unica ancora di salvataggio?

Come intervenire?

La presa in carico terapeutica di un adolescente che decide di rinunciare alla vita sociale e di rinchiudersi nella propria cameretta è un lavoro complesso e delicato.

Non è il ragazzo che si precipita dallo psicologo: lui è  nella sua stanza, impegnato a trovare strategie per rendersi invisibile al resto del mondo. A suo dire, sta anche bene fra le mura domestiche avendo eliminato con la sua condizione di reclusione proprio ciò che teme di più: lo sguardo dell’altro. Sono i genitori ad allarmarsi. Secondo Anna Ancona, presidente dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna “condurre il ragazzo fuori casa non deve essere l’obiettivo principale della relazione “terapeutica”: inizialmente è fondamentale poter stare insieme a lui, entrare nel suo mondo per favorire, rispettandone i tempi e attivandone le risorse, un cambiamento sia al livello del pensiero che dell’azione. L’accompagnamento verso il mondo esterno può avvenire solo successivamente, quando il giovane sarà in grado di affrontare progressive esperienze relazionali che ne favoriscano lentamente il reintegro nella società”. Quanto alla terapia farmacologica, essa in una fase iniziale è pressoché inutile, mentre potrebbe essere di aiuto nella fase acuta, in presenza di sintomi paranoici.

aiutoIn generale, a differenza di disturbi psicopatologici che si caratterizzano per la presenza di comportamenti esternalizzanti (es. abuso di sostanze e comportamenti sessuali a rischio), ben evidenti alle famiglie e agli operatori della salute, i giovani hikikomori, ritirandosi socialmente, restano più invisibili, con il rischio che il loro disagio passi inosservato.

Marco Crepaldi, dell’Associazione Italiana Hikikomori Italia, segnala la presenza in questi giovani di una “lotta continua con loro stessi”: migliaia di storie che si sovrappongono, nella chat e nel forum aperti per loro, allo scopo di parlarne e di rivelare la loro inquietudine, sensibilizzando l’opinione pubblica e le istituzioni. Messaggi del tipo “Il mondo è brutto” o “La mia massima conquista  è uscire in giardino, al mattino prima che tutti si sveglino, o di notte. Per me basta che non ci sia nessuno”, ci parlano di un disagio psicologico silente, ma invalidante, che necessita di un intervento tempestivo, soprattutto in termini preventivi, affinché tale fenomeno non arrivi ad avere, anche nel nostro Paese, lo stesso impatto sociale devastante rilevato in Giappone.

Articolo a cura della dott.ssa Sara Belli

 

 

 

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